Link Indagine di qualità percepita “Cure Domiciliari Integrate”

L’U.O.C. Relazioni con il pubblico dell’ASL Napoli 3 Sud ha pubblicato sul sito aziendale (http://www.aslnapoli3sud.it) il link per la valutazione della qualità percepita dagli utenti sulle cure domiciliari integrate erogate dalle Unità operative di cure domiciliari aziendali tra cui la nostra U.O.S. Assistenza Domiciliare di III livello e cure palliative.

Condivido l’importanza dell’iniziativa ed il link al questionario. Disponibile per qualsiasi chiarimento al 0815352703 di mattina.

La tua opinione conta! - AIC - Emilia-Romagna

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSfUJmkEeuioHZDfAPgvkI9cyDFimZFllw3AXcQZioNQyITOnQ/viewform

Colera del ’73: quando Napoli fronteggiò l’epidemia in una settimana.

A distanza di un secolo, nell’agosto del ’73, Napoli fu di nuovo colpita da un’epidemia di colera. Tredicimila vittime nel 1837, settemila nel 1883, la città ripiombò nell’incubo di un ulteriore strage.

Il virus del colera partì da Torre del Greco e da lì si estese nel capoluogo campano; con l’epidemia si diffuse il terrore nella popolazione, soprattutto considerando che San Gennaro era venuto meno nel suo ruolo di protettore non sciogliendo il miracoloso sangue il 19 settembre.

Tempestiva fu la campagna di vaccinazione, attuata non solo dall’ospedale Cotugno (dove si contarono circa mille ricoveri) ma anche per le strade cittadine. File chilometriche attendevano la miracolosa puntura.

In meno di dieci giorni furono vaccinati un milione di napoletani, fu la più grande operazione di profilassi del secondo dopoguerra.

La causa dell’infezione venne individuata nel consumo di cozze al cui interno si annidava il vibrione; considerate “pattumiere del mare per la loro azione filtrante, furono vietate alla vendita.

Gli abitanti di Santa Lucia e del Pallonetto, che fino ad allora avevano tratto mezzi di sostentamento dalla mitilicoltura, si diedero al contrabbando, iniziò la cosiddetta “guerra delle cozze” tra popolani e Guardia di Finanza.

Si decise anche di interrare la famosa Fonte del Chiatamonela cui acqua sulfurea, raccolta in apposite anfore di creta, le “mummarelle“, veniva venduta dagli acquafrescai nei tanti chioschetti cittadini..Tale acqua “suffregna” si riteneva avesse effetti benefici, tra i quali la guarigione dai dolori di ulcera.

Le autorità sanitarie nutrirono seri dubbi sulla tenuta igienica delle mummarelle e fu vietata la vendita delle acque medicamentose le quali, a causa della loro composizione, non potevano essere imbottigliate.

Con le cozze, anche questa secolare e fruttuosa attività commerciale si estinse nel giro di pochi giorni.

Molte dicerie si diffusero in questo periodo, molti pregiudizi furono dovuti a una cattiva stampa che fece circolare false notizie non documentate. Ancora oggi, sebbene il virus sia stato debellato (si registrarono in tutto solo ventiquattro decessi) ai napoletani è rimasto addosso il marchio di essere “rozzi e luridi “. Sono pochi coloro che, invece, ricordano la tempestività del governo locale di arginare presto la diffusione del morbo.

In realtà il contagio, che macchiò in modo infame i napoletani, venne da fuori, da una partita di cozze importate dalla Tunisia.

Da questa ingiusta accusa nacque nel settembre del ’73 la bella poesia di Eduardo DE Filippo: “L’ Imputata” .

“Cara còzzeca, tu staie ‘nguaiata”,

dicette ‘o magistrato. ” ‘o fatto è chisto, ccà nun te salva manco Giesu Cristo: o l’ergastolo, o muore fucilata,

Qua ci sono le prove, figlia mia.

Tu hai portato il bacillo del colera:

la tua presenza è una presenza nera,’a ggente more all’erta mmiez’ ‘a via.

Che dici a tua discolpa? ” “Ecco, vedete…

Là sotto, Presidè, pare l’inferno!

Chello c’arriva, a cozzeca se mangia: si arriva mmerda, arriva dall’esterno”.

Articolo originale di Annamaria Pucino in La storia di Napoli

Coronavirus, meno decessi dove ci si è vaccinati di più contro l’influenza

Uno studio del Monzino mette in relazione decessi e casi gravi con l’immunizzazione antinfluenzale: un punto percentuale in più avrebbe fatto risparmiare 1989 morti. L’ipotesi è un rafforzamento generale delle difese immunitarie.

Che rapporto c’è tra la vaccinazione contro l’influenza e Sars-Cov-2? Un nuovo studio del centro cardiologico Monzino rivela infatti che nel periodo del lockdown è stato possibile osservare una relazione inversamente proporzionale tra copertura delle vaccinazioni antinfluenzali e numero di contagi e morti per Covid nelle regioni italiane. E che dati alla mano, un aumento dell’1% delle coperture vaccinali avrebbe permesso di evitare 1.989 decessi per Covid 19.

“Quel che abbiamo fatto è stato mettere in relazione i dati regionali sui tassi di vaccinazione antinfluenzale dello scorso anno con quelli sulla diffusione di Covid negli over 65”, spiega Mauro Amato, ricercatore del centro cardiologico Monzino e primo autore dell’articolo. “Dai risultati è emersa una situazione piuttosto chiara: la prevalenza delle infezioni da Sars-Cov-2, gli accessi in ospedale con sintomi riconducibili a Covid, gli accessi in terapia intensiva e i decessi, sono tutti risultati maggiori nelle regioni in cui i tassi di vaccinazione erano stati più bassi”.

Un dato – chiarisce Amato – che trova conferma anche nei risultati di ricerche simili svolte in paesi come il Brasile. E che se per ora non può dimostrare un nesso causale tra vaccino antifluenzale e Covid, permette comunque di formulare alcune ipotesi. “È noto che nei bambini Covid 19 si presenta con un’incidenza minore e sintomatologie che tendono ad essere più blande”, sottolinea Damiano Baldassare, coordinatore dello studio, responsabile dell’Unità per lo studio della morfologia e della funzione arteriosa del Monzino e professore del dipartimento di Biotecnologia medica e Medicina traslazionale dell’università di Milano. “Tra le ipotesi proposte per spiegare questa resistenza vi è anche il fatto che in età pediatrica si è sottoposti più spesso a vaccinazioni di qualche tipo: è noto infatti che i vaccini possono determinare un’immunità crociata, o meglio addestrata, anche nei confronti di altre patologie infettive”.

I vaccini, insomma, non proteggono solamente dal patogeno verso cui sono indirizzati, ma tendono a potenziare le reazioni immunitarie dell’organismo in modo generalizzato. E questo potrebbe aiutare a difendersi anche da Sars-Cov-2, diminuendo le probabilità di infezione e riducendo la gravità dei sintomi e delle complicazioni. “Abbiamo stimato che un aumento dell’1% della copertura vaccinale negli over 65 avrebbe potuto evitare 78.560 contagi, 2.512 ospedalizzazioni, 353 ricoveri in terapie intensive e 1.989 morti per Covid-19”, conclude Amato. “Il messaggio che arriva dal nostro studio è senz’altro di incentivare le vaccinazioni antinfluenzali nei prossimi mesi, sia per gli over 65 che nella popolazione generale”. Se la vaccinazione rende più resistenti gli anziani e bambini – ragiona Amato – è probabile che faccia lo stesso in tutte le fasce di età. E quindi più persone si vaccineranno, più aumenterà la resistenza della popolazione al virus, e diminuirà di conseguenza la sua circolazione.

Della stessa opinione il Professor Alberto Mantovani, Direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University, che sul New England Journal of Medicine, in un articolo appena uscito firmato insieme al collega olandese Mihai Netea: «vaccinarsi può aumentare il tono di base dell’immunità innata, come in un allenamento». Sull’antiinfluenzale i dati sono ancora incerti, ma in generale possiamo dire che c’è un motivo in più per vaccinarsi, cioè che molti vaccini (forse tutti) costituiscono un buon allenamento generale per la prima linea di difesa del sistema immunitario.

Confronto schematico tra influenza e Covid-19

Covid e mascherine: tutti gli errori che facciamo (e qualche consiglio per gestirle correttamente)

Dalle mascherine portate al gomito o come sottogola a chi non le lava mai e le riutilizza, per non parlare di quello che facciamo continuamente: toccarle. Tutto quello che non si dovrebbe fare con un oggetto che non è un accessorio ma un presidio medico salvavita

Durante la forzata convivenza con il Covid-19 ci siamo ormai abituati (o rassegnati) all’uso delle mascherine, che sono diventate quasi un accessorio d’abbigliamento. Ma l’abitudine può ingenerare svogliatezza e trascuratezza che, nel caso di quello che deve essere considerato a tutti gli effetti un presidio salvavita, ci portano a commettere troppi errori e troppo spesso. Ricordiamolo: la mascherina chirurgica (ma non solo) nasce a lato di un tavolo operatorio per tutelare il paziente debole da pericolose infezioni. Per le sue caratteristiche, se calzata male non è meno efficace: non lo è affatto.

Ecco una lista dei comportamenti maggiormente scorretti che notiamo a ogni angolo di strada.

Indossare la mascherina sotto il naso

La mascherina deve aderire perfettamente ai lati del volto e coprire interamente naso e bocca, che sono le fonti principali di contagio e diffusione del Covid. Non dovrebbe permettere uscita d’aria dai lati o intorno al naso. Per questo alcuni modelli hanno una leggera anima di metallo nella parte superiore che può essere modellata per farla aderire meglio al naso. Per lo stesso motivo (l’aderenza) non è consigliabile indossare la mascherina con la barba lunga. I bambini non dovrebbero avere mascherine troppo grandi, ma fatte su misura per i loro visini. Se mal posizionata, la mascherina perde qualsiasi utilità.

Calarla sotto il mento o lasciarla penzolare da un orecchio

Queste posizioni, come tenere la mascherina sulla fronte o sulla nuca sono altrettanti errori. Il “sottogola” è la cosa peggiore: i virologi sottolineano come il rischio è che diventi umida di sudore e l’umidità favorisce l’ingresso dei virus e il contagio. Ecco perché quando l’interno diventa umido la mascherina andrebbe subito gettata via o lavata.
Anche la pratica di tenerla appesa a un solo orecchio è sconsigliabile: la parte interna della mascherina (che sarà a contatto con la bocca) viene esposta alle più varie contaminazionie un movimento come togliere gli occhiali o altro può farla cadere a terra rendendola inutilizzabile.

Tenerla sul gomito/braccio/polso o in tasca (o in borsa)

Non va meglio la “moda” di tenerla sul gomito/polso o in tasca/borsa: sul gomito l’interno entra a contatto con parti della pelle che sono comunque esposte (magari abbiamo appena starnutito contro il gomito) e che sfiorano diverse superfici e c’è il rischio di maneggiare troppo e con le mani sporche la parte interna che dovrebbe invece essere incontaminata.
È fortemente sconsigliato anche indossare una mascherina chirurgica dopo averla tenuta in tasca, perché in questo modo si rischia di rovinare il filtro, sgualcirla o renderla inefficace. Tra l’altro se non siamo positivi la parte più contaminata è l’esterno e così si può contaminare anche la tasca dove poi infiliamo le mani. Stesso discorso vale per la borsa: dobbiamo pensare alla mascherina come a un oggetto potenzialmente contaminato che non vorremmo mai mettere in un posto dove infiliamo continuamente le mani. La soluzione ideale è di portare con sé una bustina di plastica o di carta, nella quale riporre la mascherina quando non viene utilizzata.

Toccarla troppo

L’errore classico è quello di toccarla troppo. Per maneggiare una mascherina nuova, o appena lavata e sanificata, è importante avere lavato bene le mani e tenerla dai cordini laterali, evitando di toccare la parte centrale che resterà a contatto con la faccia. L’altro errore, una volta indossata correttamente, è quello di continuare a toccarla, anche solo per farla aderire meglio. La parte esterna teoricamente è la più contaminata, quindi se la tocchiamo facciamo passare il virus dalla mascherina alle mani. Se la mascherina viene aggiustata sul viso, è necessario lavarsi subito le mani. Lo stesso vale per quando viene sfilata definitivamente. Anche quando ci si toglie la mascherina è importante maneggiarla dai cordini laterali, per evitare di toccare la parte centrale.

Non gettare via le mascherine monouso

Altro errore è non gettare via le mascherine monouso e riutilizzarle, tipicamente le chirurgiche, o comunque tutte le mascherine che non sono di stoffa o hanno l’indicazione “non riutilizzabile”. La durata di una mascherina dipende anche dai fattori ambientali. Le mascherine più comuni e diffuse, come quelle usa e getta o riutilizzabili di tessuto, non dovrebbero essere indossate per più di 3-4 ore a seconda dei modelli, o quando si inumidiscono (o si sporcano). Respirandoci dentro, si accumulano umidità e sporcizia, che possono favorire la formazione di batteri e di altri agenti che potrebbero rivelarsi dannosi per la salute. Al termine dell’uso o della giornata le monouso chirurgiche vanno per forza gettate via, pena l’inefficacia della protezione.

Gettare le mascherine chirurgiche male

Gettare le mascherine monouso nell’umido o nella raccolta per la plastica. Le mascherine vanno gettate via nella raccolta indifferenziata. Sarebbe meglio fossero a loro volta chiuse in un ulteriore sacchetto, in modo che non sia possibile l’eventuale contaminazione degli operatori.

Non lavare le mascherine di stoffa

Sbagliato anche non lavare dopo un solo utilizzo (salvo indicazioni) le mascherine di stoffa: serve un lavaggio in lavatrice con detersivo e una temperatura di almeno 60 °C per 30 minuti. Bene asciugarle all’aria aperta, con asciugatrice o asciugacapelli. È sconsigliato l’uso di ammorbidenti che potrebbero ostruire le maglie del tessuto. Ci sono anche mascherine che vanno lavate a freddo e meno frequentemente. Di solito sulla confezione vengono indicate le norme di un corretto uso e igienizzazione.

Non siamo ancora ai livelli di fine febbraio ma la situazione è in netto miglioramento.
22/04/2020 Non siamo ancora ai livelli di fine febbraio ma la situazione dei contagi nella nostra regione è in netto miglioramento